Pietro Pansini

Pietro Pansini
Pietro Pansini

Pietro Pansini nato a Giovinazzo (Bari), deputato repubblicano, grado 33 della massoneria, avvocato penalista





1902. Pietro Pansini difende il direttore del giornale “1799”, Eduardo Giacchetti, nella causa Aliberti/1799. Giacchetti, che denunciava sul suo foglio i politici corrotti, era stato querelato dall'on. Aliberti, per diffamazione. Gennaro Aliberti era l'organizzatore occulto del lotto clandestino a Napoli: le sue attività illegali e le frequentazioni con esponenti del crimine organizzato erano note anche ad uomini del governo.
La difesa di Giacchetti era stata proposta, appena 6 mesi prima, al giovane avvocato Enrico De Nicola: futuro primo Presidente della Repubblica. De Nicola, che aveva rifiutato sdegnosamente e pubblicamente la richiesta, scriverà una lettera al giornaleLa Propaganda”, concorrente del “1799”, per ribadire la sua scelta.


Napoli, Tribunale di Castel Capuano. Causa Aliberti-1799 (luglio 1902). L'on. Pietro Pansini durante la difesa farà una citazione dall'opera del filosofo Norberto Bobbio (nato il 18/10/1909), evocando la bella metafora della "casa di vetro". La causa non va come dovrebbe: Eduardo Giacchetti finirà in carcere.

1903. Pietro Pansini subisce un tentativo di diffamazione. Dall'episodio, rivelatosi una montatura orchestrata ai danni dell'onorevole Pansini, si risale ad un unico responsabile e non ai mandanti (poteri occulti). I socialisti napoletani promuoveranno la candidatura politica di Eduardo Giacchetti per rendergli la libertà. I loro sforzi saranno inutili perché Eduardo Giacchetti perirà in carcere a soli 42 anni. Chi tocca il re muore, compreso il re delle fogne, Gennaro Aliberti.

1904. Muore di polmonite il visconte Luigi Riola, genero di Pietro Pansini.

1905. Muore (encefalite letargica) l'unica figlia di Pietro Pansini, Rebecca, lasciando una figlia, Anna.

1913. 26/10 (domenica) Il collegio elettorale Molfetta-Bisceglie elegge a deputato al Parlamento il repubblicano prof. Pietro Pansini in lotta col socialista prof. Gaetano Salvemini. .

1921. Don Luigi Sturzo, fondatore del partito popolare, oppone il suo veto all’inclusione dell’on. Gennaro Aliberti nella lista dei candidati alle elezioni politiche. […] L’Aliberti, dopo il rifiuto, passa a sostenere la lista fascista che in quelle elezioni fa la sua prima apparizione a Napoli, e a spingere le squadre del Padovani in particolare contro l’on. Degni e i popolari, il 12 maggio, durante un comizio al Politeama.

1924. Dopo il delitto Matteotti da parte dei sicari del partito di Benito Mussolini, don Luigi Sturzo è costretto a rifugiarsi in Inghilterra in quanto “persona non gradita” al regime.

1930. Anna Riola, nipote ed unica discendente di Pietro Pansini, sposa il ricco commerciante Ciro Salvati. I due avranno 5 figli: Francesco, Luigi, Pietro, Aldo, Annamaria.

1948. Dopo la guerra, nonostante l'Italia diventi ufficialmente una democrazia, la famiglia di Ciro Salvati e Anna Riola continuerà a vivere nell'ostracismo. In seguito i loro figli avranno difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro, nonostante gli studi superiori ed universitari.

1964. Muore Luigi Salvati, figlio di Anna e Ciro. Aveva 32 anni. La causa del decesso è infarto: unico caso in famiglia. Luigi lavorava in Germania, dove era emigrato da pochi anni e godeva di ottima salute.




la casa di vetro, "La casa dell'uomo politico deve essere come di vetro in modo che tutti possano vedervi dentro liberamente. Questo impellente dovere non è stato compreso dall'Aliberti e dai suoi difensori". (Pietro Pansini in difesa di Eduardo Giacchetti, durante la causa Aliberti-1799. Napoli, Castel Capuano. Luglio 1902. Fonte "La Propaganda").

polmonite, processo infiammatorio del parenchima polmonare causato da agenti infettivi, chimici o fisici. Gli agenti fisici sono rappresentati principalmente dalle radiazioni (p. post-attinica); cause chimiche possono essere acidi o alcali (p. ab ingestis). Gli agenti infettivi sono più frequentemente responsabili di p. Possono raggiungere il polmone per inalazione, per aspirazione dal nasofaringe (soprattutto in condizioni di alterata motilità delle ciglia dell'epitelio respiratorio), per disseminazione ematogena o, più raramente, per contiguità o per ferite penetranti.


Il passato non è morto e non è neanche ancora passato. (William Faulkner)




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sabato 5 ottobre 2013

Giustino Fortunato e il pane di Affrico - Gaetano Salvemini | Indro Montanellli - Giovanni Spadolini

Scade quest'anno il trentesimo anniversario della morte di Giustino Fortunato. E, sebbene al­l'uomo e alla sua opera siano stati dedicati molti scritti nei giornali del Sud, e specialmente nelle riviste che si occupano di problemi meridionali, ho l'impressione che di questo grandissimo italia­no nel Nord si sappia ben poco.
La cosa si spiega un po' con l'indifferenza che l'Italia cisalpina ha sempre mostrato per quella d'oltre Volturno, e molto col carattere del perso­naggio, che non ebbe il pittoresco e l'aggressività battagliera di altri suoi compaesani come il Cri­spi, il Villari, il Nitti e il Salvemini.


Paesaggio cisalpino
Sebbene ininterrottamente sulla breccia politi­ca dal 1909 al 1932, prima come deputato della sua Lucania e poi come senatore, Fortunato non era uomo di lotta, non brigò mai un portafogli di ministro e, quando in Parlamento i ferri si arro­ventavano, preferiva trarsi in disparte, incapace com'era d'impennate oratorie e di quel minimo di teatralità che la polemica esige. Se si trattava di difendere i poveri «cafoni» che lo avevano eletto da qualche nuova tassa e di sollecitare cre­diti in loro favore, a don Giustino gli argomenti non mancavano e li esponeva in modo che a qua­lunque avversario era difficile ribatterli. Ma lo faceva con voce quieta e uguale, senza gesticola­re, senza drammatizzare. E se nella discussione en­travano in balio i soliti «immancabili destini », si rimetteva a sedere e non apriva più bocca. In­fatti credo che dal '22 al '32 l'abbia tenuta sem­pre chiusa.

Giustino Fortunato
Sul piano umano, Fortunato incarnava alla perfezione quell'altro tipo di meridionale che noi settentrionali non conosciamo, o non riconoscia­mo, perché non corrisponde al cliché che ce ne siamo fatto: il meridionale introverso e comples­sato, alieno da ogni retorica e esteriorità, impac­ciatissimo nella cosiddetta «vita di relazione» e quindi sempre impaurito di offendere qualcuno, di rigorose esigenze morali e morbosamente sen­sibile alle forme, malinconico e solitario. Il tipo insomma cui .apparteneva anche De Nicola, coi suoi scrupoli, le sue allergie e le sue bizze. 
Bizze e allergie, Fortunato non ne aveva. Ma scrupoli sì, e dei più nobili. Credo che in tutti i suoi scritti e discorsi invano si cercherebbe una sola parola men che riguardosa anche verso i suoi avversari.
I protagonisti (1962), Indro Montanelli

CHI abbia letto Una scelta di vita di Giorgio Amendola non può avere dimenticato le pagine sulla casa di Giustino Fortunato. Sia­mo nella Napoli del 1927-28, pullulante di antifascisti che trova­no nella biblioteca di Croce un riparo e una qualche forma di pro­tezione e di asilo: antifascisti soprattutto giovani, oscillanti fra li­beralismo e democrazia e socialismo, delusi dalle esperienze re­centi, compresa quella aventiniana, ansiosi di nuovi sbocchi, ta­lora inseguitori di nuovi fantasmi.
Nella casa di via Vittoria Colonna, Giustino Fortunato, il grande meridionalista che aveva conosciuto dopo il '60 la ferocia della guerra fra briganti e borghesi - la vera « guerra civile» del sud -, riceve tutti i giorni dalle 16 alle 19: seduto in una maesto­sa poltrona con le gambe coperte da un plaid. Nel 1928 Fortunato ha già compiuto ottant'anni, ma la sua parabola intellettuale e po­litica gli ha consentito di vivere, intero e senza illusioni, il dram­ma del « suo» Mezzogiorno, con un pessimismo solcato da note di « Ecclesiaste ».
Il giovane Amendola, non ancora passato al comunismo ma già distaccato dal filone paterno, incontra in quelle stanze severe personaggi di contrastante rilievo, quasi a rispecchiare la com­plessa e frastagliata vita del protagonista al tramonto: vecchi prìncipi napoletani (uno si proclamava figlio naturale dell'ultimo dei Borboni) ma anche democratici di schietta tempra come Um­berto Zanotti Bianco (che un giorno portò a Fortunato un pezzo di pane acquistato ad Affrico, presso Reggio Calabria, il giorno prima, che sembrava diventato una pietra scura) o scintillanti giornalisti di un filone liberale che aveva risentito di Oriani, co­me Floriano Del Secolo.
«Conversatore infaticabile»: lo descrive Amendola. Prodigo di notizie sul Mezzogiorno, instancabile nel descrivere le miserie e le insufficienze di quelle terre del sud, su cui gravava una male­dizione divina, rivissuta con trasalimenti laici. Ma avverso, come il suo amico Croce, come tutti i veri bibliofili, a ogni prestito di libri.
[...]  È una guerra che attenta alla civiltà. È lo stesso linguaggio di Croce. E quando Croce diventerà, proprio col Giolitti avversato o almeno non amato, ministro della Pubblica Istruzione nel gover­no del giugno 1920, Fortunato traverserà - lo rivelano le pagine dei suoi carteggi - uno dei momenti più dolorosi nei suoi rappor­ti, ormai pacificati e distesi, con Giolitti. È Salvemini a provoca­re l'incidente, con la sua veemenza. Salvemini deputato contro­voglia; parlamentare, eletto dai combattenti, non privo di bizze e di asperità. Anti-crociano sempre. E quindi avverso a quel tan­dem Giolitti-Croce.
In piena Camera lo storico pugliese, intervenendo sulla fiducia al governo, ricorda che nel 1905 «un vecchio uomo politico si recò da Giolitti a proporgli la nomina a senatore di Croce». «Croce, mai sentito nominare », rispose Giolitti. E l'altro: «Ma è un filosofo», «Un filosofo: assumerò informazioni».
Giolitti, dai banchi del governo, nega con una punta di sde­gno. Salvemini insiste: alle strette fa il nome dell'informatore di allora, Giustino Fortunato. Don Giustino è sconvolto. «Salverni­ni ha abusato indegnamente di me, suo amico», scrive il 6 luglio 1920 a Zanotti Bianco. Non ricorda neanche la confidenza, forse un aneddoto: comunque fatta in via riservata. Telegrafa a Croce e a Giolitti: «Non ho parole per deplorare l'abuso fatto alla Came­ra del povero mio nome». «Non so darmene pace», incalza. Esige una spiegazione di Salvemini, che gli risponde con irrita­zione fra candida e stupita: «Solo il padreterno aveva ordinato dal Monte Sinai di non fare il suo nome... Dopo il padreterno ci sei tu...»
Affronto ancora più grave e doloroso, per Fortunato, proprio in quanto gli proviene da Salvemini, il «fratello di elezione» che ha occupato così a lungo il primo posto nei suoi affetti. In Salve­mini, nel suo giovanile e battagliero vigore, nella intransigenza morale a tutta prova, il vecchio parlamentare aveva visto il rifor­matore severo, in grado di far sentire la propria voce, di formula­re denunce non accademiche ma penetranti e incisive. «Faccia­mo che la denuncia del male sia eccitamento al lavoro», gli ave­va scritto nel febbraio del 1910, «non pretesto a non lavorare.» E gli aveva augurato, solo pochi mesi più tardi, di «essere il Mazzini della nuova generazione».
Dopo la grave ferita ricevuta nel 1920, Fortunato è tranquillo solo quando Giolitti lo rassicura. E la lettera del settantanovenne presidente del Consiglio, datata lO luglio, riassume interi lo stile di un uomo, l'orgoglio di una vita. «Posso assicurarti», scrive Giolitti, «che alle parole di costui [costui sarebbe Salvemini] la Camera non diede importanza alcuna, e io appena me ne accorsi, e certamente non mi passò per la mente di dubitare che tu avessi parlato men che amichevolmente di me.»
Lo screzio su Giolitti non sarà mai del tutto risarcito, tra For­tunato e Salvemini, nonostante le imminenti convergenze politi­che nella lotta alla dittatura. Sul fronte variegato e composito del liberalismo meridionale. Fortunato sarà il solo che coglierà fin dall 'inizio l'essenza autoritaria e reazionaria del fascismo, il solo che non conoscerà, nel suo sterminato pessimismo, neanche un momento di illusione sul moto delle camicie nere. «Quaggiù tutti 'delirano' dalla gioia», scrive da Napoli ad Antonio Cefaly, il 6 novembre, all'indomani della marcia su Roma, «'plaudenti' a tutto quello che è accaduto e accade. Come le tante volte in mia vita, son solo a pensare, a dolermi in opposizione alla quasi una­nimità.»
Gli uomini che fecero l'Italia (1993), Giovanni Spadolini