Scade quest'anno il trentesimo anniversario della morte di Giustino Fortunato. E, sebbene all'uomo e alla sua opera siano stati dedicati molti scritti nei giornali del Sud, e specialmente nelle riviste che si occupano di problemi meridionali, ho l'impressione che di questo grandissimo italiano nel Nord si sappia ben poco.
La cosa si spiega un po' con l'indifferenza che l'Italia cisalpina ha sempre mostrato per quella d'oltre Volturno, e molto col carattere del personaggio, che non ebbe il pittoresco e l'aggressività battagliera di altri suoi compaesani come il Crispi, il Villari, il Nitti e il Salvemini.
Sebbene ininterrottamente sulla breccia politica dal 1909 al 1932, prima come deputato della sua Lucania e poi come senatore, Fortunato non era uomo di lotta, non brigò mai un portafogli di ministro e, quando in Parlamento i ferri si arroventavano, preferiva trarsi in disparte, incapace com'era d'impennate oratorie e di quel minimo di teatralità che la polemica esige. Se si trattava di difendere i poveri «cafoni» che lo avevano eletto da qualche nuova tassa e di sollecitare crediti in loro favore, a don Giustino gli argomenti non mancavano e li esponeva in modo che a qualunque avversario era difficile ribatterli. Ma lo faceva con voce quieta e uguale, senza gesticolare, senza drammatizzare. E se nella discussione entravano in balio i soliti «immancabili destini », si rimetteva a sedere e non apriva più bocca. Infatti credo che dal '22 al '32 l'abbia tenuta sempre chiusa.
Sul piano umano, Fortunato incarnava alla perfezione quell'altro tipo di meridionale che noi settentrionali non conosciamo, o non riconosciamo, perché non corrisponde al cliché che ce ne siamo fatto: il meridionale introverso e complessato, alieno da ogni retorica e esteriorità, impacciatissimo nella cosiddetta «vita di relazione» e quindi sempre impaurito di offendere qualcuno, di rigorose esigenze morali e morbosamente sensibile alle forme, malinconico e solitario. Il tipo insomma cui .apparteneva anche De Nicola, coi suoi scrupoli, le sue allergie e le sue bizze.
Bizze e allergie, Fortunato non ne aveva. Ma scrupoli sì, e dei più nobili. Credo che in tutti i suoi scritti e discorsi invano si cercherebbe una sola parola men che riguardosa anche verso i suoi avversari.
I protagonisti (1962), Indro Montanelli
CHI abbia letto Una scelta di vita di Giorgio Amendola non può avere dimenticato le pagine sulla casa di Giustino Fortunato. Siamo nella Napoli del 1927-28, pullulante di antifascisti che trovano nella biblioteca di Croce un riparo e una qualche forma di protezione e di asilo: antifascisti soprattutto giovani, oscillanti fra liberalismo e democrazia e socialismo, delusi dalle esperienze recenti, compresa quella aventiniana, ansiosi di nuovi sbocchi, talora inseguitori di nuovi fantasmi.
Nella casa di via Vittoria Colonna, Giustino Fortunato, il grande meridionalista che aveva conosciuto dopo il '60 la ferocia della guerra fra briganti e borghesi - la vera « guerra civile» del sud -, riceve tutti i giorni dalle 16 alle 19: seduto in una maestosa poltrona con le gambe coperte da un plaid. Nel 1928 Fortunato ha già compiuto ottant'anni, ma la sua parabola intellettuale e politica gli ha consentito di vivere, intero e senza illusioni, il dramma del « suo» Mezzogiorno, con un pessimismo solcato da note di « Ecclesiaste ».
Il giovane Amendola, non ancora passato al comunismo ma già distaccato dal filone paterno, incontra in quelle stanze severe personaggi di contrastante rilievo, quasi a rispecchiare la complessa e frastagliata vita del protagonista al tramonto: vecchi prìncipi napoletani (uno si proclamava figlio naturale dell'ultimo dei Borboni) ma anche democratici di schietta tempra come Umberto Zanotti Bianco (che un giorno portò a Fortunato un pezzo di pane acquistato ad Affrico, presso Reggio Calabria, il giorno prima, che sembrava diventato una pietra scura) o scintillanti giornalisti di un filone liberale che aveva risentito di Oriani, come Floriano Del Secolo.
«Conversatore infaticabile»: lo descrive Amendola. Prodigo di notizie sul Mezzogiorno, instancabile nel descrivere le miserie e le insufficienze di quelle terre del sud, su cui gravava una maledizione divina, rivissuta con trasalimenti laici. Ma avverso, come il suo amico Croce, come tutti i veri bibliofili, a ogni prestito di libri.
[...] È una guerra che attenta alla civiltà. È lo stesso linguaggio di Croce. E quando Croce diventerà, proprio col Giolitti avversato o almeno non amato, ministro della Pubblica Istruzione nel governo del giugno 1920, Fortunato traverserà - lo rivelano le pagine dei suoi carteggi - uno dei momenti più dolorosi nei suoi rapporti, ormai pacificati e distesi, con Giolitti. È Salvemini a provocare l'incidente, con la sua veemenza. Salvemini deputato controvoglia; parlamentare, eletto dai combattenti, non privo di bizze e di asperità. Anti-crociano sempre. E quindi avverso a quel tandem Giolitti-Croce.
In piena Camera lo storico pugliese, intervenendo sulla fiducia al governo, ricorda che nel 1905 «un vecchio uomo politico si recò da Giolitti a proporgli la nomina a senatore di Croce». «Croce, mai sentito nominare », rispose Giolitti. E l'altro: «Ma è un filosofo», «Un filosofo: assumerò informazioni».
Giolitti, dai banchi del governo, nega con una punta di sdegno. Salvemini insiste: alle strette fa il nome dell'informatore di allora, Giustino Fortunato. Don Giustino è sconvolto. «Salvernini ha abusato indegnamente di me, suo amico», scrive il 6 luglio 1920 a Zanotti Bianco. Non ricorda neanche la confidenza, forse un aneddoto: comunque fatta in via riservata. Telegrafa a Croce e a Giolitti: «Non ho parole per deplorare l'abuso fatto alla Camera del povero mio nome». «Non so darmene pace», incalza. Esige una spiegazione di Salvemini, che gli risponde con irritazione fra candida e stupita: «Solo il padreterno aveva ordinato dal Monte Sinai di non fare il suo nome... Dopo il padreterno ci sei tu...»
Affronto ancora più grave e doloroso, per Fortunato, proprio in quanto gli proviene da Salvemini, il «fratello di elezione» che ha occupato così a lungo il primo posto nei suoi affetti. In Salvemini, nel suo giovanile e battagliero vigore, nella intransigenza morale a tutta prova, il vecchio parlamentare aveva visto il riformatore severo, in grado di far sentire la propria voce, di formulare denunce non accademiche ma penetranti e incisive. «Facciamo che la denuncia del male sia eccitamento al lavoro», gli aveva scritto nel febbraio del 1910, «non pretesto a non lavorare.» E gli aveva augurato, solo pochi mesi più tardi, di «essere il Mazzini della nuova generazione».
Dopo la grave ferita ricevuta nel 1920, Fortunato è tranquillo solo quando Giolitti lo rassicura. E la lettera del settantanovenne presidente del Consiglio, datata lO luglio, riassume interi lo stile di un uomo, l'orgoglio di una vita. «Posso assicurarti», scrive Giolitti, «che alle parole di costui [costui sarebbe Salvemini] la Camera non diede importanza alcuna, e io appena me ne accorsi, e certamente non mi passò per la mente di dubitare che tu avessi parlato men che amichevolmente di me.»
Lo screzio su Giolitti non sarà mai del tutto risarcito, tra Fortunato e Salvemini, nonostante le imminenti convergenze politiche nella lotta alla dittatura. Sul fronte variegato e composito del liberalismo meridionale. Fortunato sarà il solo che coglierà fin dall 'inizio l'essenza autoritaria e reazionaria del fascismo, il solo che non conoscerà, nel suo sterminato pessimismo, neanche un momento di illusione sul moto delle camicie nere. «Quaggiù tutti 'delirano' dalla gioia», scrive da Napoli ad Antonio Cefaly, il 6 novembre, all'indomani della marcia su Roma, «'plaudenti' a tutto quello che è accaduto e accade. Come le tante volte in mia vita, son solo a pensare, a dolermi in opposizione alla quasi unanimità.»
Gli uomini che fecero l'Italia (1993), Giovanni Spadolini