Pietro Pansini

Pietro Pansini
Pietro Pansini

Pietro Pansini nato a Giovinazzo (Bari), deputato repubblicano, grado 33 della massoneria, avvocato penalista





1902. Pietro Pansini difende il direttore del giornale “1799”, Eduardo Giacchetti, nella causa Aliberti/1799. Giacchetti, che denunciava sul suo foglio i politici corrotti, era stato querelato dall'on. Aliberti, per diffamazione. Gennaro Aliberti era l'organizzatore occulto del lotto clandestino a Napoli: le sue attività illegali e le frequentazioni con esponenti del crimine organizzato erano note anche ad uomini del governo.
La difesa di Giacchetti era stata proposta, appena 6 mesi prima, al giovane avvocato Enrico De Nicola: futuro primo Presidente della Repubblica. De Nicola, che aveva rifiutato sdegnosamente e pubblicamente la richiesta, scriverà una lettera al giornaleLa Propaganda”, concorrente del “1799”, per ribadire la sua scelta.


Napoli, Tribunale di Castel Capuano. Causa Aliberti-1799 (luglio 1902). L'on. Pietro Pansini durante la difesa farà una citazione dall'opera del filosofo Norberto Bobbio (nato il 18/10/1909), evocando la bella metafora della "casa di vetro". La causa non va come dovrebbe: Eduardo Giacchetti finirà in carcere.

1903. Pietro Pansini subisce un tentativo di diffamazione. Dall'episodio, rivelatosi una montatura orchestrata ai danni dell'onorevole Pansini, si risale ad un unico responsabile e non ai mandanti (poteri occulti). I socialisti napoletani promuoveranno la candidatura politica di Eduardo Giacchetti per rendergli la libertà. I loro sforzi saranno inutili perché Eduardo Giacchetti perirà in carcere a soli 42 anni. Chi tocca il re muore, compreso il re delle fogne, Gennaro Aliberti.

1904. Muore di polmonite il visconte Luigi Riola, genero di Pietro Pansini.

1905. Muore (encefalite letargica) l'unica figlia di Pietro Pansini, Rebecca, lasciando una figlia, Anna.

1913. 26/10 (domenica) Il collegio elettorale Molfetta-Bisceglie elegge a deputato al Parlamento il repubblicano prof. Pietro Pansini in lotta col socialista prof. Gaetano Salvemini. .

1921. Don Luigi Sturzo, fondatore del partito popolare, oppone il suo veto all’inclusione dell’on. Gennaro Aliberti nella lista dei candidati alle elezioni politiche. […] L’Aliberti, dopo il rifiuto, passa a sostenere la lista fascista che in quelle elezioni fa la sua prima apparizione a Napoli, e a spingere le squadre del Padovani in particolare contro l’on. Degni e i popolari, il 12 maggio, durante un comizio al Politeama.

1924. Dopo il delitto Matteotti da parte dei sicari del partito di Benito Mussolini, don Luigi Sturzo è costretto a rifugiarsi in Inghilterra in quanto “persona non gradita” al regime.

1930. Anna Riola, nipote ed unica discendente di Pietro Pansini, sposa il ricco commerciante Ciro Salvati. I due avranno 5 figli: Francesco, Luigi, Pietro, Aldo, Annamaria.

1948. Dopo la guerra, nonostante l'Italia diventi ufficialmente una democrazia, la famiglia di Ciro Salvati e Anna Riola continuerà a vivere nell'ostracismo. In seguito i loro figli avranno difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro, nonostante gli studi superiori ed universitari.

1964. Muore Luigi Salvati, figlio di Anna e Ciro. Aveva 32 anni. La causa del decesso è infarto: unico caso in famiglia. Luigi lavorava in Germania, dove era emigrato da pochi anni e godeva di ottima salute.




la casa di vetro, "La casa dell'uomo politico deve essere come di vetro in modo che tutti possano vedervi dentro liberamente. Questo impellente dovere non è stato compreso dall'Aliberti e dai suoi difensori". (Pietro Pansini in difesa di Eduardo Giacchetti, durante la causa Aliberti-1799. Napoli, Castel Capuano. Luglio 1902. Fonte "La Propaganda").

polmonite, processo infiammatorio del parenchima polmonare causato da agenti infettivi, chimici o fisici. Gli agenti fisici sono rappresentati principalmente dalle radiazioni (p. post-attinica); cause chimiche possono essere acidi o alcali (p. ab ingestis). Gli agenti infettivi sono più frequentemente responsabili di p. Possono raggiungere il polmone per inalazione, per aspirazione dal nasofaringe (soprattutto in condizioni di alterata motilità delle ciglia dell'epitelio respiratorio), per disseminazione ematogena o, più raramente, per contiguità o per ferite penetranti.


Il passato non è morto e non è neanche ancora passato. (William Faulkner)




lunedì 21 ottobre 2013

Massoneria di Rito Scozzese - grado del cavaliere Kadosh | "Los hermanitos" della ragazza di Piero Armenti

Più complessi sono le valenze e il sim­bolismo dei gradi addizionali propri del Ri­to Scozzese che in più presentano diffe­renze notevoli nei rituali dei vari Paesi (in alcuni casi il loro snelli mento ha portato all'abolizione di alcuni gradi). Pertanto è impossibile prenderli in considerazione nel dettaglio a partire dal 4° (Maestro Se­greto) fino al 330 (Sovrano Grande Ispet­tore Generale). Dal punto di vista dei con­tenuti simbolici si riscontrano un am­pliamento della leggenda di Hiram e rife­rimenti, oltre che alla Bibbia (l'Arca San­ta, per esempio), alla tradizione cavalle­resca, al Templarismo, alla Rosa-Croce.
Uno dei gradi che, all'esterno della Massoneria, ha suscitato più fraintendi­menti è quello del cavaliere Kadosh (o dell'Aquila Bianca e Nera), collegato alla leggenda templare con esplicito riferimento alla morte di Jacques de Molay. 

Los hermanitos della ragazza di Piero Armenti - El Junkito, Caracas
Il tema spirituale è sempre la morte-rinascita e più specificamente il tema iniziatico del distacco. Ma, come in molti miti in cui l'eroe o il dio soc­combono alle forze delle tenebre, la vitti­ma deve essere vendicata. Così questo gra­do è detto della vendetta, nel senso che ci si deve impegnare affinché la verità e la giustizia vincano sul male. Anche a cau­sa della complessità di questa problema­tica la vendetta templare è stata erronea­mente interpretata come uno degli obiet­tivi della Massoneria e una minaccia sem­pre incombente per chiunque si opponga ai suoi disegni. 
La Massoneria - Il vincolo fraterno che gioca con la storia, ed. Giunti

venerdì 18 ottobre 2013

Storia dell'intreccio politico mafioso in Italia | L'on. Gennaro Aliberti e il gioco del lotto clandestino

GENNARO ALIBERTI era un uomo politico campano, originario di Pontecagnano, provincia di Salerno, che operava agli inizi del novecento nel napoletano.
L'onorevole Gennaro Aliberti, tra i suoi interessi, vantava amicizie con noti personaggi della camorra  (criminalità organizzata napoletana). Inoltre aveva diversi interessi imprenditoriali: era il referente occulto, per esempio, del gioco del lotto clandestino.
Don Gennarino, insomma, è stato un precursore, un pioniere di quella nuova tassa sulla povertà rappresentata dal gioco d'azzardo in tutte le sue forme: dal gratta e perdi ai videopoker... Dicevo che 'on Gennaro è stato l'avanguardia, la punta di diamante di questo nuovo prelievo legalizzato che oggi è promosso direttamente dallo Stato (le mafie ringraziano).
Eppure, ai suoi tempi, c'era chi parlava male di Gennaro Aliberti; certamente si trattava di persone ignoranti, mosse unicamente da invidia per cotanto brillante spirito imprenditoriale e riconoscimento sociale. Gente che non comprendeva la portata storica di un nuovo modo (molto antico nella sostanza) di intendere l'impegno politico.
Quel Gennaro Aliberti era un uomo che sapeva fare politica con la p maiuscola...  C'erano persone che osavano scrivere cose indicibili (ma vere) sul conto di Gennarino Aliberti... Fortunatamente, il giovane avvocato Enrico De Nicola, uomo integro e tutto d'un pezzo, si rifiutò di difendere colui che aveva scritto delle infamità (provate) su Gennaro Aliberti.
In seguito è stato scritto che Gennaro Aliberti era una "fogna che va murata": quanta inutile cattiveria nei suoi confronti. Lo Stato oggi dovrebbe rimediare a questa ingiustizia nei confronti di 'on Gennarino Aliberti, dovrebbe fargli un monumento, a quella merda.

Agustin Codazzi

mercoledì 9 ottobre 2013

"L'incidente" | Nilde Iotti e Tina Anselmi: contrasto alla loggia massonica P2, la loggia infame

Ritornava a casa dalla messa, suo fratello più grande gli aveva detto che, se aveva freddo, poteva ritornare in macchina con gli altri, il motorino l'avrebbe guidato lui.
Gli aveva risposto di no: era venuto col motorino e con quello sarebbe tornato. Non era affatto freddo, nonostante fossero le 8 di sera. Certamente cominciava a scendere l'umidità...
Risalendo la strada di Capodimonte, fu superato, a destra, da alcune macchine che andavano di fretta. Il rombo dei motori disturbava la placida tranquillità della domenica: una nota stonata dato che non c'era traffico e le poche auto procedevano con calma. Quando fu sorpassato da quelle vetture, avvertì una sensazione di freddo, ora si, come attraversando una nuvola. Tirò via i piedi dai pedali e li poggiò sulla pedanina, pochi centimetri più in alto.
Al Regresso, c'era la coda di macchine in attesa che scattasse il verde. 

A quei tempi il semaforo era azionato da un vigile che manovrava dall'interno di un casotto, una sorta di chiosco verde stinto coi bordi bombati e vetrate da autobus.
Nonostante la carreggiata fosse molto larga, la fila di macchine era tutta a ridosso della doppia striscia. Le auto erano praticamente attaccate l'una all'altra, cosicché, non potendo rientrare a destra, fu costretto a proseguire poco oltre la doppia striscia. La strada nell'altro senso di marcia era ancora più larga, avrebbero potuto procedere tranquillamente 3 auto affiancate. Ciononostante avanzò con cautela, tenendosi a ridosso della doppia striscia. Ma il margine di curva non fu sufficiente ad una macchina che scendeva e fu colpito.

L'aveva visto arrivare, spedito e calibrando la traiettoria sullo sterzo come cercando di investirlo. L'ultima immagine che memorizzò prima di cadere, fu la sterzata dell'uomo al volante.

Tutto avvenne con la rapidità del lampo: il tipo che sterzava all'ultimo, con un ampio gesto, l'impatto, il vuoto.

L'asfalto fermò la sua caduta dopo una parabola di un paio di metri. Atterrò sull'avambraccio sinistro, sulla mano destra e sulle punte dei piedi, contemporaneamente. L'attimo successivo era in mezzo al traffico a sollevare il motorino ripiegato al centro della strada. Non vedeva altro, come se il motorino fosse il suo corpo inanimato e lui la sua anima, ed ora fossero separati perché non era sopravvissuto all'impatto...



Notò che il pedalino destro era completamente schiacciato sul carter che, spaccato in quel punto, perdeva olio nero. Ed era come se il motorino sanguinasse...
Lo appoggiò sul ciglio della strada, a ridosso del marciapiedi. Gli venne incontro suo padre, di corsa, chiedendogli cos'era successo.
Il ragazzino rispose: “Sono scivolato!”.
Il tipo venne fuori dall'auto energicamente, sfoggiando un'ammirevole agilità per la sua stazza. Era sotto la trentina, aveva scarpe di gomma e i pantaloni della tuta da tennis. Un maglione beige copriva la pancia prominente.
L'auto era ferma al centro della strada: di sbieco, la ruota sinistra anteriore era a terra. La macchina era visibilmente di traverso, non allineata all'andamento di marcia. All'interno c'erano alcune ombre di ragazze, tre o quattro, tra i 20 e i 25 anni.
Nonostante l'auto ferma, il traffico non subì rallentamenti e le auto scorrevano indisturbate.
 

Si avvicinò suo fratello maggiore e alcuni curiosi, tra cui un tipo biondo e lentigginoso: il biondone.
L'autista e suo padre scambiarono frasi di circostanza. L'autista si discolpò: il ragazzo guidava contromano. Parlamentarono un po'. Ad un certo punto il ragazzino scoppiò in lacrime. Aveva realizzato che se non avesse sollevato i piedi sulla pedanina, non sarebbe sopravvissuto all'impatto. Un fremito ondeggiò sulle ombre delle ragazze nell'auto. Il biondone gli disse in dialetto: “E ora perché piangi: non ti sei fatto niente!”. 

Era vero, non aveva neanche un graffio, ma avvertendo l'ostilità dell'evidenza spicciola nei suoi confronti, si addossò la colpa dell'incidente.
Il biondone ebbe come un senso di sollievo a quelle affermazioni. Guardò l'autista gonfio di soddisfazione, e, se avesse potuto, quel frocione avrebbe sbottato: “Dio è con noi!”. L'autista non raccolse, rimanendo serio e impassibile.

Durante il confronto con la controparte (o le controparti), il ragazzino si aspettava di veder sbucare il vigile dalla sua tana. Quest'evento non accadde: il vigile rimase rintanato per tutto il quarto d'ora e passa che andò dall'incidente al congedo degli interessati.
Dopo aver parlamentato, stavano andando via quando suo padre richiamò l'autista, per dirgli che il ragazzino non aveva ancora 14 anni.

Era da più di un anno che frequentava quella chiesa giù a Capodimonte.
In quella chiesa si aveva ricevuto il sacramento della prima comunione, dopo anni di catechismo alla parrocchia dei Rogazionisti del suo quartiere.
Di quegli interminabili e pallosi anni del catechismo preferiva non parlare, ma aveva ben chiaro che in quel periodo qualsiasi cosa avesse fatto sarebbe stato di gran lunga migliore. E poi non aveva mai capito perché le catechiste non lo avevano mai congedato. Non aveva fatto un'assenza ed era stato costretto anch'egli a sorbirsi la stessa minestrina annacquata: le chiacchiere che le due bigotte dispensavano a tutti.
Comunque a distanza di qualche mese dalla comunione, una domenica sera si trovò di punto in bianco, dietro suggerimento di sua madre, a servire la messa in quella chiesa di Capodimonte.
L'esperienza gli piacque così il giorno successivo volle ripeterla. Andò da solo, a piedi fino al tempio. In realtà l'ultimo tratto lo fece di corsa, dalla parte senza marciapiede che va da Regresso (il luogo dove avverrà "l'incidente") alla chiesa.
Quando vide il sagrestano gli disse che era intenzionato a servire la messa anche quel giorno. Lui gli chiese se non avesse paura ad andare da solo per quelle strade. In effetti, pur non essendo distante da casa sua, la strada per raggiungere la chiesa era quantomeno desolante: non c'erano punti di ritrovo, locali o negozi, ma solo strade e marciapiedi male illuminati. Eppure disse di no, di cosa doveva aver paura? 

Il sagrestano gli rispose che potevano sapere chi era suo padre.
A quest'affermazione rimase alquanto perplesso, gli sembrava proprio campata in aria, non aveva fatto tanta strada per sentirsi prendere in giro. E poi chi era suo padre? Un funzionario del Comune di Napoli, senza troppe chance di carriera nonostante i titoli e l'indiscussa professionalità. 

Il sagrestano si fece pensieroso, era una persona di qualità, misurava le parole e sapeva scherzare senza essere offensivo. Non tornò più sull'argomento, ma si fece sempre scrupolo di aspettare che arrivasse l'autobus quando il ragazzino tornava a casa.

Il giorno dopo "l'incidente", il ragazzino andò a scuola. Aveva gli stessi abiti della sera prima. A Regresso salì su un autobus affollato che l'avrebbe portato al centro. La solita routine, ma quel giorno notò qualcosa di diverso: lo strano silenzio che regnava all'interno del bus. Non era il rumore tipico dei mezzi affollati che prendeva, questo era silenzioso in modo innaturale nonostante fosse pieno, stipato di gente... e il silenzio durò lungo tutto il tragitto: gli parve decisamente insolito. Ebbe la precisa sensazione che fossero tutti al corrente di ciò che gli era capitato il giorno precedente, nonostante l'autobus provenisse dalla periferia e lui non conoscesse nessuno da quelle parti... Com'era possibile?
Quel ragazzino ero io. Tempo dopo mi dissi che avrei ricordato la data di “quell'incidente”.

Sono passati più di 30 anni da quella domenica sera al Regresso, quando mi sono messo in testa di ricostruirne la dinamica, avevo un problema: non ricordavo più la data esatta del fatidico incidente.
Ero assolutamente certo che fosse avvenuto di domenica e altrettanto certo che fosse successo a fine ottobre. Dovevo procurarmi un calendario del 1981 per ritrovare quella domenica lì. Immaginai che utilizzando internet sarebbe stato facile... In realtà è stato ancora più semplice di quanto immaginassi ed è avvenuto prima che mi attivassi a fare una ricerca.

“L'incidente” è avvenuto a fine ottobre 1981. In quei giorni, l'onorevole Nilde Iotti (deputato Pci, presidente della Camera) propose all'onorevole Tina Anselmi la presidenza della Commissione inquirente sulla P2 (la loggia infame). 

Tina Anselmi accettò dopo 5 minuti di riflessione.

Rendo omaggio al valore di queste due donne, raro esempio di etica politica.

sabato 5 ottobre 2013

Giustino Fortunato e il pane di Affrico - Gaetano Salvemini | Indro Montanellli - Giovanni Spadolini

Scade quest'anno il trentesimo anniversario della morte di Giustino Fortunato. E, sebbene al­l'uomo e alla sua opera siano stati dedicati molti scritti nei giornali del Sud, e specialmente nelle riviste che si occupano di problemi meridionali, ho l'impressione che di questo grandissimo italia­no nel Nord si sappia ben poco.
La cosa si spiega un po' con l'indifferenza che l'Italia cisalpina ha sempre mostrato per quella d'oltre Volturno, e molto col carattere del perso­naggio, che non ebbe il pittoresco e l'aggressività battagliera di altri suoi compaesani come il Cri­spi, il Villari, il Nitti e il Salvemini.


Paesaggio cisalpino
Sebbene ininterrottamente sulla breccia politi­ca dal 1909 al 1932, prima come deputato della sua Lucania e poi come senatore, Fortunato non era uomo di lotta, non brigò mai un portafogli di ministro e, quando in Parlamento i ferri si arro­ventavano, preferiva trarsi in disparte, incapace com'era d'impennate oratorie e di quel minimo di teatralità che la polemica esige. Se si trattava di difendere i poveri «cafoni» che lo avevano eletto da qualche nuova tassa e di sollecitare cre­diti in loro favore, a don Giustino gli argomenti non mancavano e li esponeva in modo che a qua­lunque avversario era difficile ribatterli. Ma lo faceva con voce quieta e uguale, senza gesticola­re, senza drammatizzare. E se nella discussione en­travano in balio i soliti «immancabili destini », si rimetteva a sedere e non apriva più bocca. In­fatti credo che dal '22 al '32 l'abbia tenuta sem­pre chiusa.

Giustino Fortunato
Sul piano umano, Fortunato incarnava alla perfezione quell'altro tipo di meridionale che noi settentrionali non conosciamo, o non riconoscia­mo, perché non corrisponde al cliché che ce ne siamo fatto: il meridionale introverso e comples­sato, alieno da ogni retorica e esteriorità, impac­ciatissimo nella cosiddetta «vita di relazione» e quindi sempre impaurito di offendere qualcuno, di rigorose esigenze morali e morbosamente sen­sibile alle forme, malinconico e solitario. Il tipo insomma cui .apparteneva anche De Nicola, coi suoi scrupoli, le sue allergie e le sue bizze. 
Bizze e allergie, Fortunato non ne aveva. Ma scrupoli sì, e dei più nobili. Credo che in tutti i suoi scritti e discorsi invano si cercherebbe una sola parola men che riguardosa anche verso i suoi avversari.
I protagonisti (1962), Indro Montanelli

CHI abbia letto Una scelta di vita di Giorgio Amendola non può avere dimenticato le pagine sulla casa di Giustino Fortunato. Sia­mo nella Napoli del 1927-28, pullulante di antifascisti che trova­no nella biblioteca di Croce un riparo e una qualche forma di pro­tezione e di asilo: antifascisti soprattutto giovani, oscillanti fra li­beralismo e democrazia e socialismo, delusi dalle esperienze re­centi, compresa quella aventiniana, ansiosi di nuovi sbocchi, ta­lora inseguitori di nuovi fantasmi.
Nella casa di via Vittoria Colonna, Giustino Fortunato, il grande meridionalista che aveva conosciuto dopo il '60 la ferocia della guerra fra briganti e borghesi - la vera « guerra civile» del sud -, riceve tutti i giorni dalle 16 alle 19: seduto in una maesto­sa poltrona con le gambe coperte da un plaid. Nel 1928 Fortunato ha già compiuto ottant'anni, ma la sua parabola intellettuale e po­litica gli ha consentito di vivere, intero e senza illusioni, il dram­ma del « suo» Mezzogiorno, con un pessimismo solcato da note di « Ecclesiaste ».
Il giovane Amendola, non ancora passato al comunismo ma già distaccato dal filone paterno, incontra in quelle stanze severe personaggi di contrastante rilievo, quasi a rispecchiare la com­plessa e frastagliata vita del protagonista al tramonto: vecchi prìncipi napoletani (uno si proclamava figlio naturale dell'ultimo dei Borboni) ma anche democratici di schietta tempra come Um­berto Zanotti Bianco (che un giorno portò a Fortunato un pezzo di pane acquistato ad Affrico, presso Reggio Calabria, il giorno prima, che sembrava diventato una pietra scura) o scintillanti giornalisti di un filone liberale che aveva risentito di Oriani, co­me Floriano Del Secolo.
«Conversatore infaticabile»: lo descrive Amendola. Prodigo di notizie sul Mezzogiorno, instancabile nel descrivere le miserie e le insufficienze di quelle terre del sud, su cui gravava una male­dizione divina, rivissuta con trasalimenti laici. Ma avverso, come il suo amico Croce, come tutti i veri bibliofili, a ogni prestito di libri.
[...]  È una guerra che attenta alla civiltà. È lo stesso linguaggio di Croce. E quando Croce diventerà, proprio col Giolitti avversato o almeno non amato, ministro della Pubblica Istruzione nel gover­no del giugno 1920, Fortunato traverserà - lo rivelano le pagine dei suoi carteggi - uno dei momenti più dolorosi nei suoi rappor­ti, ormai pacificati e distesi, con Giolitti. È Salvemini a provoca­re l'incidente, con la sua veemenza. Salvemini deputato contro­voglia; parlamentare, eletto dai combattenti, non privo di bizze e di asperità. Anti-crociano sempre. E quindi avverso a quel tan­dem Giolitti-Croce.
In piena Camera lo storico pugliese, intervenendo sulla fiducia al governo, ricorda che nel 1905 «un vecchio uomo politico si recò da Giolitti a proporgli la nomina a senatore di Croce». «Croce, mai sentito nominare », rispose Giolitti. E l'altro: «Ma è un filosofo», «Un filosofo: assumerò informazioni».
Giolitti, dai banchi del governo, nega con una punta di sde­gno. Salvemini insiste: alle strette fa il nome dell'informatore di allora, Giustino Fortunato. Don Giustino è sconvolto. «Salverni­ni ha abusato indegnamente di me, suo amico», scrive il 6 luglio 1920 a Zanotti Bianco. Non ricorda neanche la confidenza, forse un aneddoto: comunque fatta in via riservata. Telegrafa a Croce e a Giolitti: «Non ho parole per deplorare l'abuso fatto alla Came­ra del povero mio nome». «Non so darmene pace», incalza. Esige una spiegazione di Salvemini, che gli risponde con irrita­zione fra candida e stupita: «Solo il padreterno aveva ordinato dal Monte Sinai di non fare il suo nome... Dopo il padreterno ci sei tu...»
Affronto ancora più grave e doloroso, per Fortunato, proprio in quanto gli proviene da Salvemini, il «fratello di elezione» che ha occupato così a lungo il primo posto nei suoi affetti. In Salve­mini, nel suo giovanile e battagliero vigore, nella intransigenza morale a tutta prova, il vecchio parlamentare aveva visto il rifor­matore severo, in grado di far sentire la propria voce, di formula­re denunce non accademiche ma penetranti e incisive. «Faccia­mo che la denuncia del male sia eccitamento al lavoro», gli ave­va scritto nel febbraio del 1910, «non pretesto a non lavorare.» E gli aveva augurato, solo pochi mesi più tardi, di «essere il Mazzini della nuova generazione».
Dopo la grave ferita ricevuta nel 1920, Fortunato è tranquillo solo quando Giolitti lo rassicura. E la lettera del settantanovenne presidente del Consiglio, datata lO luglio, riassume interi lo stile di un uomo, l'orgoglio di una vita. «Posso assicurarti», scrive Giolitti, «che alle parole di costui [costui sarebbe Salvemini] la Camera non diede importanza alcuna, e io appena me ne accorsi, e certamente non mi passò per la mente di dubitare che tu avessi parlato men che amichevolmente di me.»
Lo screzio su Giolitti non sarà mai del tutto risarcito, tra For­tunato e Salvemini, nonostante le imminenti convergenze politi­che nella lotta alla dittatura. Sul fronte variegato e composito del liberalismo meridionale. Fortunato sarà il solo che coglierà fin dall 'inizio l'essenza autoritaria e reazionaria del fascismo, il solo che non conoscerà, nel suo sterminato pessimismo, neanche un momento di illusione sul moto delle camicie nere. «Quaggiù tutti 'delirano' dalla gioia», scrive da Napoli ad Antonio Cefaly, il 6 novembre, all'indomani della marcia su Roma, «'plaudenti' a tutto quello che è accaduto e accade. Come le tante volte in mia vita, son solo a pensare, a dolermi in opposizione alla quasi una­nimità.»
Gli uomini che fecero l'Italia (1993), Giovanni Spadolini