Pietro Pansini

Pietro Pansini
Pietro Pansini

Pietro Pansini nato a Giovinazzo (Bari), deputato repubblicano, grado 33 della massoneria, avvocato penalista





1902. Pietro Pansini difende il direttore del giornale “1799”, Eduardo Giacchetti, nella causa Aliberti/1799. Giacchetti, che denunciava sul suo foglio i politici corrotti, era stato querelato dall'on. Aliberti, per diffamazione. Gennaro Aliberti era l'organizzatore occulto del lotto clandestino a Napoli: le sue attività illegali e le frequentazioni con esponenti del crimine organizzato erano note anche ad uomini del governo.
La difesa di Giacchetti era stata proposta, appena 6 mesi prima, al giovane avvocato Enrico De Nicola: futuro primo Presidente della Repubblica. De Nicola, che aveva rifiutato sdegnosamente e pubblicamente la richiesta, scriverà una lettera al giornaleLa Propaganda”, concorrente del “1799”, per ribadire la sua scelta.


Napoli, Tribunale di Castel Capuano. Causa Aliberti-1799 (luglio 1902). L'on. Pietro Pansini durante la difesa farà una citazione dall'opera del filosofo Norberto Bobbio (nato il 18/10/1909), evocando la bella metafora della "casa di vetro". La causa non va come dovrebbe: Eduardo Giacchetti finirà in carcere.

1903. Pietro Pansini subisce un tentativo di diffamazione. Dall'episodio, rivelatosi una montatura orchestrata ai danni dell'onorevole Pansini, si risale ad un unico responsabile e non ai mandanti (poteri occulti). I socialisti napoletani promuoveranno la candidatura politica di Eduardo Giacchetti per rendergli la libertà. I loro sforzi saranno inutili perché Eduardo Giacchetti perirà in carcere a soli 42 anni. Chi tocca il re muore, compreso il re delle fogne, Gennaro Aliberti.

1904. Muore di polmonite il visconte Luigi Riola, genero di Pietro Pansini.

1905. Muore (encefalite letargica) l'unica figlia di Pietro Pansini, Rebecca, lasciando una figlia, Anna.

1913. 26/10 (domenica) Il collegio elettorale Molfetta-Bisceglie elegge a deputato al Parlamento il repubblicano prof. Pietro Pansini in lotta col socialista prof. Gaetano Salvemini. .

1921. Don Luigi Sturzo, fondatore del partito popolare, oppone il suo veto all’inclusione dell’on. Gennaro Aliberti nella lista dei candidati alle elezioni politiche. […] L’Aliberti, dopo il rifiuto, passa a sostenere la lista fascista che in quelle elezioni fa la sua prima apparizione a Napoli, e a spingere le squadre del Padovani in particolare contro l’on. Degni e i popolari, il 12 maggio, durante un comizio al Politeama.

1924. Dopo il delitto Matteotti da parte dei sicari del partito di Benito Mussolini, don Luigi Sturzo è costretto a rifugiarsi in Inghilterra in quanto “persona non gradita” al regime.

1930. Anna Riola, nipote ed unica discendente di Pietro Pansini, sposa il ricco commerciante Ciro Salvati. I due avranno 5 figli: Francesco, Luigi, Pietro, Aldo, Annamaria.

1948. Dopo la guerra, nonostante l'Italia diventi ufficialmente una democrazia, la famiglia di Ciro Salvati e Anna Riola continuerà a vivere nell'ostracismo. In seguito i loro figli avranno difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro, nonostante gli studi superiori ed universitari.

1964. Muore Luigi Salvati, figlio di Anna e Ciro. Aveva 32 anni. La causa del decesso è infarto: unico caso in famiglia. Luigi lavorava in Germania, dove era emigrato da pochi anni e godeva di ottima salute.




la casa di vetro, "La casa dell'uomo politico deve essere come di vetro in modo che tutti possano vedervi dentro liberamente. Questo impellente dovere non è stato compreso dall'Aliberti e dai suoi difensori". (Pietro Pansini in difesa di Eduardo Giacchetti, durante la causa Aliberti-1799. Napoli, Castel Capuano. Luglio 1902. Fonte "La Propaganda").

polmonite, processo infiammatorio del parenchima polmonare causato da agenti infettivi, chimici o fisici. Gli agenti fisici sono rappresentati principalmente dalle radiazioni (p. post-attinica); cause chimiche possono essere acidi o alcali (p. ab ingestis). Gli agenti infettivi sono più frequentemente responsabili di p. Possono raggiungere il polmone per inalazione, per aspirazione dal nasofaringe (soprattutto in condizioni di alterata motilità delle ciglia dell'epitelio respiratorio), per disseminazione ematogena o, più raramente, per contiguità o per ferite penetranti.


Il passato non è morto e non è neanche ancora passato. (William Faulkner)




lunedì 25 novembre 2013

Massoneria | La loggia coperta Propaganda e la P2 di Licio Gelli

Della nota sigla P2 la P significa “Propaganda”. È il nome di una loggia nata nel 1877 allo scopo di “tenere attivi e vincolati all'Ordine e in corrispondenza diretta con il Grande Oriente gli uomini che per la loro posizione sociale non avrebbero potuto iscriversi nelle logge ordinarie e frequentarne i lavori” (U. Bacci, Il Libro del Massone Italiano, Bologna, 1972). Il clima storico è quello in cui molti affiliati alla Massoneria giocarono un ruolo importantissimo nell'assestamento dello Stato unitario. Fra i membri di questa loggia si possono infatti ricordare i nomi di G. Garibaldi, dei politici A. Saffi, G. Zanardelli, A. Bertani, e F. Crispi, del filosofo del diritto G. Bovio e del poeta G. Carducci. Che ci possano essere “posizioni sociali” incompatibili con la partecipazione ai regolari lavori delle logge è comprensibile, ma poiché la partecipazione a questi lavori è dalla Massoneria dichiarata essenziale per la costruzione e il percorso spirituale del singolo, sembra che si possa individuare sin dalle origini della Loggia “Propaganda” un cedimento a interessi di natura squisitamente profana. Tale valutazione è suffragata dal fatto che un primo scandalo, quello della Banca Romana del 1892-1893 in cui furono coinvolti alcuni dei suoi membri, determinò la crisi di questa loggia “atipica”.
Dopo il periodo fascista essa si ricostituì, assumendo il numero 2 per sottolineare la sua antica tradizione: tra le logge ancora attive poteva infatti vantare un'anzianità inferiore solo a quella della loggia alessandrina “Santorre di Santarosa”.
La Massoneria – Il vincolo fraterno che gioca con la storia; Giunti Editore

Nell'Ottocento la trovata dei “fratelli coperti”, e di conseguenza la creazione della Loggia Propaganda, era servita a proteggere chi temeva le persecuzioni clericali.
Gianfranco Piazzesi, Gelli – La carriera di un eroe di quest'Italia; ed. Garzanti

Human, collage su carta - Gianluca Salvati - 2004 Caracas

lunedì 4 novembre 2013

La casa di vetro e la Ragion di Stato, di Remo Bodei | Politica e menzogna

[...] "Già con i teorici cinquecenteschi e seicenteschi della Ragion di Stato la politica non è più l'arte di governare gli Stati secondo giustizia e ragione, ma piuttosto l'arte di conservare o espandere il potere. Si riconosce che la politica ha i suoi misteri che non possono essere conosciuti dai sudditi o dai cittadini, perché al volgo bisogna somministrare utili menzogne. Dalla politica come arte segreta si è passati, attraverso il primo liberalismo inglese e l'illuminismo, alla democrazia come casa di vetro, esposta agli sguardi e al controllo dell'opinione pubblica. Ma non si perdono zone di opacità e di manipolazione."
Dunque dobbiamo rassegnarci a un alto tasso fisiologico di menzogna?
"Ciò che oggi pare il tratto fondamentale della menzogna è che non si tratta più del nascondimento della verità, ma della sua sostituzione, dell'uccisione dei fatti. In questi ultimi decenni si è ecceduto in campo politico nell'uso sfacciato di menzogne, di affermazioni subito smentite. Una casa assolutamente trasparente non ci sarà mai, eppure molti cominciano ad accorgersi che non tutte le opinioni sono equivalenti e che i fatti alla fine hanno la testa dura.
Remo Bodei
 

sabato 2 novembre 2013

Regime e censura, di Umberto Eco | Uomo che saluta, olio su tela

[...] In questo senso le forme di censura sono state molteplici: dall'eliminazione di libri pericolosi (dall'indice sino al rogo) all'ordine ai giornali di non trasmettere alcune notizie, alla damnatio memoriae che è una forma di censura talora spontanea e inavvertita, per cui di qualcuno o di qualche opera non si fa più cenno, da nessuna parte, in modo che quella cosa (nome, opera, impresa) venga per così dire rimossa dalla coscienza collettiva.
 [...]  C'è un modo di distinguere le censure che chiameremo culturali da quelle politiche. Le censure culturali avvengono lentamente, a poco a poco, per consenso generale, e di solito gli errori vengono definiti tali senza essere cancellati (noi possiamo benissimo ritrovare testi dove si dice che il Sole gira intorno alla Terra), mentre le censure politiche agiscono per così dire chirurgicamente, tendono a eliminare un ricordo, a fare in modo che non possa mai più riemergere.
 [...] Sono convinto che nell'epoca delle comunicazioni di massa, dove anche le vecchie forme di dittatura si trasformano in populismo mediatico, la censura tradizionale diventi sempre più inefficace.
 [...] In realtà anche in dittature come quella fascista la censura impediva solo che alcune notizie fossero date pubblicamente, ma non impediva che esse circolassero in modo clandestino - e sovente la notizia sussurrata aveva un impatto maggiore della notizia resa pubblica. Allora il sussurro prendeva la forma della mormorazione bocca-orecchio, oggi prenderà quella della mormorazione-blog.
Umbert Eco, La Repubblica

Uomo che saluta, olio su tela 1997 - Gianluca Salvati

lunedì 21 ottobre 2013

Massoneria di Rito Scozzese - grado del cavaliere Kadosh | "Los hermanitos" della ragazza di Piero Armenti

Più complessi sono le valenze e il sim­bolismo dei gradi addizionali propri del Ri­to Scozzese che in più presentano diffe­renze notevoli nei rituali dei vari Paesi (in alcuni casi il loro snelli mento ha portato all'abolizione di alcuni gradi). Pertanto è impossibile prenderli in considerazione nel dettaglio a partire dal 4° (Maestro Se­greto) fino al 330 (Sovrano Grande Ispet­tore Generale). Dal punto di vista dei con­tenuti simbolici si riscontrano un am­pliamento della leggenda di Hiram e rife­rimenti, oltre che alla Bibbia (l'Arca San­ta, per esempio), alla tradizione cavalle­resca, al Templarismo, alla Rosa-Croce.
Uno dei gradi che, all'esterno della Massoneria, ha suscitato più fraintendi­menti è quello del cavaliere Kadosh (o dell'Aquila Bianca e Nera), collegato alla leggenda templare con esplicito riferimento alla morte di Jacques de Molay. 

Los hermanitos della ragazza di Piero Armenti - El Junkito, Caracas
Il tema spirituale è sempre la morte-rinascita e più specificamente il tema iniziatico del distacco. Ma, come in molti miti in cui l'eroe o il dio soc­combono alle forze delle tenebre, la vitti­ma deve essere vendicata. Così questo gra­do è detto della vendetta, nel senso che ci si deve impegnare affinché la verità e la giustizia vincano sul male. Anche a cau­sa della complessità di questa problema­tica la vendetta templare è stata erronea­mente interpretata come uno degli obiet­tivi della Massoneria e una minaccia sem­pre incombente per chiunque si opponga ai suoi disegni. 
La Massoneria - Il vincolo fraterno che gioca con la storia, ed. Giunti

venerdì 18 ottobre 2013

Storia dell'intreccio politico mafioso in Italia | L'on. Gennaro Aliberti e il gioco del lotto clandestino

GENNARO ALIBERTI era un uomo politico campano, originario di Pontecagnano, provincia di Salerno, che operava agli inizi del novecento nel napoletano.
L'onorevole Gennaro Aliberti, tra i suoi interessi, vantava amicizie con noti personaggi della camorra  (criminalità organizzata napoletana). Inoltre aveva diversi interessi imprenditoriali: era il referente occulto, per esempio, del gioco del lotto clandestino.
Don Gennarino, insomma, è stato un precursore, un pioniere di quella nuova tassa sulla povertà rappresentata dal gioco d'azzardo in tutte le sue forme: dal gratta e perdi ai videopoker... Dicevo che 'on Gennaro è stato l'avanguardia, la punta di diamante di questo nuovo prelievo legalizzato che oggi è promosso direttamente dallo Stato (le mafie ringraziano).
Eppure, ai suoi tempi, c'era chi parlava male di Gennaro Aliberti; certamente si trattava di persone ignoranti, mosse unicamente da invidia per cotanto brillante spirito imprenditoriale e riconoscimento sociale. Gente che non comprendeva la portata storica di un nuovo modo (molto antico nella sostanza) di intendere l'impegno politico.
Quel Gennaro Aliberti era un uomo che sapeva fare politica con la p maiuscola...  C'erano persone che osavano scrivere cose indicibili (ma vere) sul conto di Gennarino Aliberti... Fortunatamente, il giovane avvocato Enrico De Nicola, uomo integro e tutto d'un pezzo, si rifiutò di difendere colui che aveva scritto delle infamità (provate) su Gennaro Aliberti.
In seguito è stato scritto che Gennaro Aliberti era una "fogna che va murata": quanta inutile cattiveria nei suoi confronti. Lo Stato oggi dovrebbe rimediare a questa ingiustizia nei confronti di 'on Gennarino Aliberti, dovrebbe fargli un monumento, a quella merda.

Agustin Codazzi

mercoledì 9 ottobre 2013

"L'incidente" | Nilde Iotti e Tina Anselmi: contrasto alla loggia massonica P2, la loggia infame

Ritornava a casa dalla messa, suo fratello più grande gli aveva detto che, se aveva freddo, poteva ritornare in macchina con gli altri, il motorino l'avrebbe guidato lui.
Gli aveva risposto di no: era venuto col motorino e con quello sarebbe tornato. Non era affatto freddo, nonostante fossero le 8 di sera. Certamente cominciava a scendere l'umidità...
Risalendo la strada di Capodimonte, fu superato, a destra, da alcune macchine che andavano di fretta. Il rombo dei motori disturbava la placida tranquillità della domenica: una nota stonata dato che non c'era traffico e le poche auto procedevano con calma. Quando fu sorpassato da quelle vetture, avvertì una sensazione di freddo, ora si, come attraversando una nuvola. Tirò via i piedi dai pedali e li poggiò sulla pedanina, pochi centimetri più in alto.
Al Regresso, c'era la coda di macchine in attesa che scattasse il verde. 

A quei tempi il semaforo era azionato da un vigile che manovrava dall'interno di un casotto, una sorta di chiosco verde stinto coi bordi bombati e vetrate da autobus.
Nonostante la carreggiata fosse molto larga, la fila di macchine era tutta a ridosso della doppia striscia. Le auto erano praticamente attaccate l'una all'altra, cosicché, non potendo rientrare a destra, fu costretto a proseguire poco oltre la doppia striscia. La strada nell'altro senso di marcia era ancora più larga, avrebbero potuto procedere tranquillamente 3 auto affiancate. Ciononostante avanzò con cautela, tenendosi a ridosso della doppia striscia. Ma il margine di curva non fu sufficiente ad una macchina che scendeva e fu colpito.

L'aveva visto arrivare, spedito e calibrando la traiettoria sullo sterzo come cercando di investirlo. L'ultima immagine che memorizzò prima di cadere, fu la sterzata dell'uomo al volante.

Tutto avvenne con la rapidità del lampo: il tipo che sterzava all'ultimo, con un ampio gesto, l'impatto, il vuoto.

L'asfalto fermò la sua caduta dopo una parabola di un paio di metri. Atterrò sull'avambraccio sinistro, sulla mano destra e sulle punte dei piedi, contemporaneamente. L'attimo successivo era in mezzo al traffico a sollevare il motorino ripiegato al centro della strada. Non vedeva altro, come se il motorino fosse il suo corpo inanimato e lui la sua anima, ed ora fossero separati perché non era sopravvissuto all'impatto...



Notò che il pedalino destro era completamente schiacciato sul carter che, spaccato in quel punto, perdeva olio nero. Ed era come se il motorino sanguinasse...
Lo appoggiò sul ciglio della strada, a ridosso del marciapiedi. Gli venne incontro suo padre, di corsa, chiedendogli cos'era successo.
Il ragazzino rispose: “Sono scivolato!”.
Il tipo venne fuori dall'auto energicamente, sfoggiando un'ammirevole agilità per la sua stazza. Era sotto la trentina, aveva scarpe di gomma e i pantaloni della tuta da tennis. Un maglione beige copriva la pancia prominente.
L'auto era ferma al centro della strada: di sbieco, la ruota sinistra anteriore era a terra. La macchina era visibilmente di traverso, non allineata all'andamento di marcia. All'interno c'erano alcune ombre di ragazze, tre o quattro, tra i 20 e i 25 anni.
Nonostante l'auto ferma, il traffico non subì rallentamenti e le auto scorrevano indisturbate.
 

Si avvicinò suo fratello maggiore e alcuni curiosi, tra cui un tipo biondo e lentigginoso: il biondone.
L'autista e suo padre scambiarono frasi di circostanza. L'autista si discolpò: il ragazzo guidava contromano. Parlamentarono un po'. Ad un certo punto il ragazzino scoppiò in lacrime. Aveva realizzato che se non avesse sollevato i piedi sulla pedanina, non sarebbe sopravvissuto all'impatto. Un fremito ondeggiò sulle ombre delle ragazze nell'auto. Il biondone gli disse in dialetto: “E ora perché piangi: non ti sei fatto niente!”. 

Era vero, non aveva neanche un graffio, ma avvertendo l'ostilità dell'evidenza spicciola nei suoi confronti, si addossò la colpa dell'incidente.
Il biondone ebbe come un senso di sollievo a quelle affermazioni. Guardò l'autista gonfio di soddisfazione, e, se avesse potuto, quel frocione avrebbe sbottato: “Dio è con noi!”. L'autista non raccolse, rimanendo serio e impassibile.

Durante il confronto con la controparte (o le controparti), il ragazzino si aspettava di veder sbucare il vigile dalla sua tana. Quest'evento non accadde: il vigile rimase rintanato per tutto il quarto d'ora e passa che andò dall'incidente al congedo degli interessati.
Dopo aver parlamentato, stavano andando via quando suo padre richiamò l'autista, per dirgli che il ragazzino non aveva ancora 14 anni.

Era da più di un anno che frequentava quella chiesa giù a Capodimonte.
In quella chiesa si aveva ricevuto il sacramento della prima comunione, dopo anni di catechismo alla parrocchia dei Rogazionisti del suo quartiere.
Di quegli interminabili e pallosi anni del catechismo preferiva non parlare, ma aveva ben chiaro che in quel periodo qualsiasi cosa avesse fatto sarebbe stato di gran lunga migliore. E poi non aveva mai capito perché le catechiste non lo avevano mai congedato. Non aveva fatto un'assenza ed era stato costretto anch'egli a sorbirsi la stessa minestrina annacquata: le chiacchiere che le due bigotte dispensavano a tutti.
Comunque a distanza di qualche mese dalla comunione, una domenica sera si trovò di punto in bianco, dietro suggerimento di sua madre, a servire la messa in quella chiesa di Capodimonte.
L'esperienza gli piacque così il giorno successivo volle ripeterla. Andò da solo, a piedi fino al tempio. In realtà l'ultimo tratto lo fece di corsa, dalla parte senza marciapiede che va da Regresso (il luogo dove avverrà "l'incidente") alla chiesa.
Quando vide il sagrestano gli disse che era intenzionato a servire la messa anche quel giorno. Lui gli chiese se non avesse paura ad andare da solo per quelle strade. In effetti, pur non essendo distante da casa sua, la strada per raggiungere la chiesa era quantomeno desolante: non c'erano punti di ritrovo, locali o negozi, ma solo strade e marciapiedi male illuminati. Eppure disse di no, di cosa doveva aver paura? 

Il sagrestano gli rispose che potevano sapere chi era suo padre.
A quest'affermazione rimase alquanto perplesso, gli sembrava proprio campata in aria, non aveva fatto tanta strada per sentirsi prendere in giro. E poi chi era suo padre? Un funzionario del Comune di Napoli, senza troppe chance di carriera nonostante i titoli e l'indiscussa professionalità. 

Il sagrestano si fece pensieroso, era una persona di qualità, misurava le parole e sapeva scherzare senza essere offensivo. Non tornò più sull'argomento, ma si fece sempre scrupolo di aspettare che arrivasse l'autobus quando il ragazzino tornava a casa.

Il giorno dopo "l'incidente", il ragazzino andò a scuola. Aveva gli stessi abiti della sera prima. A Regresso salì su un autobus affollato che l'avrebbe portato al centro. La solita routine, ma quel giorno notò qualcosa di diverso: lo strano silenzio che regnava all'interno del bus. Non era il rumore tipico dei mezzi affollati che prendeva, questo era silenzioso in modo innaturale nonostante fosse pieno, stipato di gente... e il silenzio durò lungo tutto il tragitto: gli parve decisamente insolito. Ebbe la precisa sensazione che fossero tutti al corrente di ciò che gli era capitato il giorno precedente, nonostante l'autobus provenisse dalla periferia e lui non conoscesse nessuno da quelle parti... Com'era possibile?
Quel ragazzino ero io. Tempo dopo mi dissi che avrei ricordato la data di “quell'incidente”.

Sono passati più di 30 anni da quella domenica sera al Regresso, quando mi sono messo in testa di ricostruirne la dinamica, avevo un problema: non ricordavo più la data esatta del fatidico incidente.
Ero assolutamente certo che fosse avvenuto di domenica e altrettanto certo che fosse successo a fine ottobre. Dovevo procurarmi un calendario del 1981 per ritrovare quella domenica lì. Immaginai che utilizzando internet sarebbe stato facile... In realtà è stato ancora più semplice di quanto immaginassi ed è avvenuto prima che mi attivassi a fare una ricerca.

“L'incidente” è avvenuto a fine ottobre 1981. In quei giorni, l'onorevole Nilde Iotti (deputato Pci, presidente della Camera) propose all'onorevole Tina Anselmi la presidenza della Commissione inquirente sulla P2 (la loggia infame). 

Tina Anselmi accettò dopo 5 minuti di riflessione.

Rendo omaggio al valore di queste due donne, raro esempio di etica politica.

sabato 5 ottobre 2013

Giustino Fortunato e il pane di Affrico - Gaetano Salvemini | Indro Montanellli - Giovanni Spadolini

Scade quest'anno il trentesimo anniversario della morte di Giustino Fortunato. E, sebbene al­l'uomo e alla sua opera siano stati dedicati molti scritti nei giornali del Sud, e specialmente nelle riviste che si occupano di problemi meridionali, ho l'impressione che di questo grandissimo italia­no nel Nord si sappia ben poco.
La cosa si spiega un po' con l'indifferenza che l'Italia cisalpina ha sempre mostrato per quella d'oltre Volturno, e molto col carattere del perso­naggio, che non ebbe il pittoresco e l'aggressività battagliera di altri suoi compaesani come il Cri­spi, il Villari, il Nitti e il Salvemini.


Paesaggio cisalpino
Sebbene ininterrottamente sulla breccia politi­ca dal 1909 al 1932, prima come deputato della sua Lucania e poi come senatore, Fortunato non era uomo di lotta, non brigò mai un portafogli di ministro e, quando in Parlamento i ferri si arro­ventavano, preferiva trarsi in disparte, incapace com'era d'impennate oratorie e di quel minimo di teatralità che la polemica esige. Se si trattava di difendere i poveri «cafoni» che lo avevano eletto da qualche nuova tassa e di sollecitare cre­diti in loro favore, a don Giustino gli argomenti non mancavano e li esponeva in modo che a qua­lunque avversario era difficile ribatterli. Ma lo faceva con voce quieta e uguale, senza gesticola­re, senza drammatizzare. E se nella discussione en­travano in balio i soliti «immancabili destini », si rimetteva a sedere e non apriva più bocca. In­fatti credo che dal '22 al '32 l'abbia tenuta sem­pre chiusa.

Giustino Fortunato
Sul piano umano, Fortunato incarnava alla perfezione quell'altro tipo di meridionale che noi settentrionali non conosciamo, o non riconoscia­mo, perché non corrisponde al cliché che ce ne siamo fatto: il meridionale introverso e comples­sato, alieno da ogni retorica e esteriorità, impac­ciatissimo nella cosiddetta «vita di relazione» e quindi sempre impaurito di offendere qualcuno, di rigorose esigenze morali e morbosamente sen­sibile alle forme, malinconico e solitario. Il tipo insomma cui .apparteneva anche De Nicola, coi suoi scrupoli, le sue allergie e le sue bizze. 
Bizze e allergie, Fortunato non ne aveva. Ma scrupoli sì, e dei più nobili. Credo che in tutti i suoi scritti e discorsi invano si cercherebbe una sola parola men che riguardosa anche verso i suoi avversari.
I protagonisti (1962), Indro Montanelli

CHI abbia letto Una scelta di vita di Giorgio Amendola non può avere dimenticato le pagine sulla casa di Giustino Fortunato. Sia­mo nella Napoli del 1927-28, pullulante di antifascisti che trova­no nella biblioteca di Croce un riparo e una qualche forma di pro­tezione e di asilo: antifascisti soprattutto giovani, oscillanti fra li­beralismo e democrazia e socialismo, delusi dalle esperienze re­centi, compresa quella aventiniana, ansiosi di nuovi sbocchi, ta­lora inseguitori di nuovi fantasmi.
Nella casa di via Vittoria Colonna, Giustino Fortunato, il grande meridionalista che aveva conosciuto dopo il '60 la ferocia della guerra fra briganti e borghesi - la vera « guerra civile» del sud -, riceve tutti i giorni dalle 16 alle 19: seduto in una maesto­sa poltrona con le gambe coperte da un plaid. Nel 1928 Fortunato ha già compiuto ottant'anni, ma la sua parabola intellettuale e po­litica gli ha consentito di vivere, intero e senza illusioni, il dram­ma del « suo» Mezzogiorno, con un pessimismo solcato da note di « Ecclesiaste ».
Il giovane Amendola, non ancora passato al comunismo ma già distaccato dal filone paterno, incontra in quelle stanze severe personaggi di contrastante rilievo, quasi a rispecchiare la com­plessa e frastagliata vita del protagonista al tramonto: vecchi prìncipi napoletani (uno si proclamava figlio naturale dell'ultimo dei Borboni) ma anche democratici di schietta tempra come Um­berto Zanotti Bianco (che un giorno portò a Fortunato un pezzo di pane acquistato ad Affrico, presso Reggio Calabria, il giorno prima, che sembrava diventato una pietra scura) o scintillanti giornalisti di un filone liberale che aveva risentito di Oriani, co­me Floriano Del Secolo.
«Conversatore infaticabile»: lo descrive Amendola. Prodigo di notizie sul Mezzogiorno, instancabile nel descrivere le miserie e le insufficienze di quelle terre del sud, su cui gravava una male­dizione divina, rivissuta con trasalimenti laici. Ma avverso, come il suo amico Croce, come tutti i veri bibliofili, a ogni prestito di libri.
[...]  È una guerra che attenta alla civiltà. È lo stesso linguaggio di Croce. E quando Croce diventerà, proprio col Giolitti avversato o almeno non amato, ministro della Pubblica Istruzione nel gover­no del giugno 1920, Fortunato traverserà - lo rivelano le pagine dei suoi carteggi - uno dei momenti più dolorosi nei suoi rappor­ti, ormai pacificati e distesi, con Giolitti. È Salvemini a provoca­re l'incidente, con la sua veemenza. Salvemini deputato contro­voglia; parlamentare, eletto dai combattenti, non privo di bizze e di asperità. Anti-crociano sempre. E quindi avverso a quel tan­dem Giolitti-Croce.
In piena Camera lo storico pugliese, intervenendo sulla fiducia al governo, ricorda che nel 1905 «un vecchio uomo politico si recò da Giolitti a proporgli la nomina a senatore di Croce». «Croce, mai sentito nominare », rispose Giolitti. E l'altro: «Ma è un filosofo», «Un filosofo: assumerò informazioni».
Giolitti, dai banchi del governo, nega con una punta di sde­gno. Salvemini insiste: alle strette fa il nome dell'informatore di allora, Giustino Fortunato. Don Giustino è sconvolto. «Salverni­ni ha abusato indegnamente di me, suo amico», scrive il 6 luglio 1920 a Zanotti Bianco. Non ricorda neanche la confidenza, forse un aneddoto: comunque fatta in via riservata. Telegrafa a Croce e a Giolitti: «Non ho parole per deplorare l'abuso fatto alla Came­ra del povero mio nome». «Non so darmene pace», incalza. Esige una spiegazione di Salvemini, che gli risponde con irrita­zione fra candida e stupita: «Solo il padreterno aveva ordinato dal Monte Sinai di non fare il suo nome... Dopo il padreterno ci sei tu...»
Affronto ancora più grave e doloroso, per Fortunato, proprio in quanto gli proviene da Salvemini, il «fratello di elezione» che ha occupato così a lungo il primo posto nei suoi affetti. In Salve­mini, nel suo giovanile e battagliero vigore, nella intransigenza morale a tutta prova, il vecchio parlamentare aveva visto il rifor­matore severo, in grado di far sentire la propria voce, di formula­re denunce non accademiche ma penetranti e incisive. «Faccia­mo che la denuncia del male sia eccitamento al lavoro», gli ave­va scritto nel febbraio del 1910, «non pretesto a non lavorare.» E gli aveva augurato, solo pochi mesi più tardi, di «essere il Mazzini della nuova generazione».
Dopo la grave ferita ricevuta nel 1920, Fortunato è tranquillo solo quando Giolitti lo rassicura. E la lettera del settantanovenne presidente del Consiglio, datata lO luglio, riassume interi lo stile di un uomo, l'orgoglio di una vita. «Posso assicurarti», scrive Giolitti, «che alle parole di costui [costui sarebbe Salvemini] la Camera non diede importanza alcuna, e io appena me ne accorsi, e certamente non mi passò per la mente di dubitare che tu avessi parlato men che amichevolmente di me.»
Lo screzio su Giolitti non sarà mai del tutto risarcito, tra For­tunato e Salvemini, nonostante le imminenti convergenze politi­che nella lotta alla dittatura. Sul fronte variegato e composito del liberalismo meridionale. Fortunato sarà il solo che coglierà fin dall 'inizio l'essenza autoritaria e reazionaria del fascismo, il solo che non conoscerà, nel suo sterminato pessimismo, neanche un momento di illusione sul moto delle camicie nere. «Quaggiù tutti 'delirano' dalla gioia», scrive da Napoli ad Antonio Cefaly, il 6 novembre, all'indomani della marcia su Roma, «'plaudenti' a tutto quello che è accaduto e accade. Come le tante volte in mia vita, son solo a pensare, a dolermi in opposizione alla quasi una­nimità.»
Gli uomini che fecero l'Italia (1993), Giovanni Spadolini

mercoledì 10 luglio 2013

1979, Un attentato di Prima Linea | Antonio Sogliano - Gaetano Salvemini

Una sera del 1979 sentimmo un gran boato, quel rumore proveniva dalla parte alta del quartiere.
Il giorno dopo, quando ci recammo a scuola, non ci fecero entrare: era stata fatta esplodere una bomba al suo interno. Quel fracasso della sera prima proveniva proprio da lì.
Lo spiazzo antistante all'entrata della scuola era cosparso di schegge di vetro. Era la scuola media "A. Sogliano", dei Colli Aminei, oggi Tribunale dei minori.
Non ho mai capito gran che della dinamica dell'attentato e dei suoi perché. Si disse che era stato realizzato da una cellula di Prima Linea. Le poche notizie confuse che ho trovato sul web, hanno già dimenticato che si trattava di una scuola pubblica. La Sogliano, la mia scuola.
Il giorno dopo rientrammo nelle aule: i riflessi smaglianti delle vetrate nuove alle finestre richiamarono la mia attenzione per qualche tempo.
In seguito, anche il muro sbrecciato dalla bomba fu assorbito dalla routine che tutto avvolge. E tutto dimentica... "Perché colpire una scuola pubblica?".
Per anni ho creduto che Prima Linea fosse un gruppo eversivo di destra.
Invece no, era opera di proletari o presunti tali... questi “compagni che sbagliavano”, a volte erano proprio incorreggibili: l'attentato sembrava commissionato dalla peggiore destra. Quando si dice che gli estremi si toccano, si afferma una grande verità. Bisognava essere molto ingenui per non vedere dietro quell’evento la manina del regime infame...

Dicevo che non era chiara la dinamica, anche perché l'attentato fu sventato dal custode. I terroristi gli spararono ad una gamba, ma il fatto di essere stati scoperti pare abbia fatto saltare i loro piani, limitando i danni alle strutture dell’edificio. 
Ricordo quell'uomo, il custode, così lo chiamavo tra me e me. Non era un bidello, era evidente: avevo notato che vigilava già prima della bomba. Ricordo la sua foto apparsa sul Mattino nel letto d'ospedale nei giorni successivi l'attentato. E lo ricordo quando rientrò a scuola, claudicante ma sempre vigile: una presenza tanto preziosa quanto discreta.
La scuola si chiamava "Antonio Sogliano", aveva la succursale nei pressi di piazza Garibaldi, piuttosto lontana, l'anno seguente gli fu cambiato il nome e diventò la scuola media "Gaetano Salvemini", l’apostolo delle plebi meridionali. Insomma, Prima Linea aveva rivendicato l'attentato, il regime ci aveva apposto il timbro.

Fine - 2008, collage su cartone - Gianluca Salvati

venerdì 14 giugno 2013

Sosteneva Pier Paolo Pasolini - PPP e il potere in Italia di Leonardo Sciascia

[...] Prima che in questo articolo - pubblicato sul Corriere il 1° febbraio 1975 col titolo Il vuoto del potere in Italia e poi raccolto negli Scritti corsari col titolo che la memoria di coloro che l'avevano letto ormai gli dava: L'articolo delle lucciole - Pasolini aveva parlato del linguaggio di Moro in articoli e note di linguistica (e si veda il primo Empirismo eretico). Ma qui, nell'articolo delle lucciole, la sua attenzione a Moro, al linguaggio di Moro, affiora in un contesto più avvertito e preciso, dentro una più vasta e disperata visione delle cose italiane.
"Come sempre - dice Pasolini - solo nella lingua si sono avuti dei sintomi". I sintomi del correre verso il vuoto di quel potere democristiano che era stato, fino a dieci anni prima, "la pura e semplice continuazione del regime fascista".
L'affaire Moro, Leonardo Sciascia (Sellerio editore)

Il signor nessuno, olio su tela 2007 - Gianluca Salvati

sabato 8 giugno 2013

La Propaganda - La condanna del "faro" | Pietro Pansini - Roberto Marvasi

Per la querela Pansini

  Il Ciccarese in pubblica udienza del 22 aprile ultimo, dopo avere nel periodo istruttorio, tenuto il contegno di cui già abbiamo parlato, affermò: "Io non posso provare quanto affermai contro il prof. Pietro Pansini e che forma oggetto della sua querela. L'amor proprio mi fece velo nel combatterlo perché era doluto di lui, che, a mia insaputa e senza alcuna necessità fece incarcerare mia madre nell'Ospedale della Vita, fornendo così ai miei nemici il destro per potermi definire un figlio ingrato. Ero pure doluto di lui, perché mi si fece credere che lui aveva voluto la pubblicazione del certificato penale a mio carico sulla Propaganda. Sono perciò dolente del disturbo creatogli e lo deploro".
  Eguali dichiarazioni il Ciccarese costantemente ripetette nelle udienze successive, ogni volta che i risultati del dibattimento offrivano sempre più la prova della insensatezza degli addebiti fatti dal Ciccarese. E fu constatato perfino che questi - denunziato per l'ammonizione - potette scongiurare tale grave provvedimento contro di lui, principalmente per la testimonianza favorevole fattagli proprio dal prof. Pietro Pansini per il quale poi, il Ciccarese, mostrò la sua gratitudine, col vendicarsi con gli articoli diffamatori!

Per la querela Marvasi

  Il Ciccarese in udienza, mentre ritrattava le accuse lanciate contro il prof. Pietro Pansini, riconfermava esplicitamente tutto, una per una, contro il nostro Roberto Marvasi, che, dopo questa pubblica discussione, ci è diventato ancora più caro. Egli ha conservato una calma ammirevole, tanto più perchè egli ha dovuto reprimere tutti gli scatti, giustissimi, della sua indole vivace, del suo temperamento ardente, del suo animo generoso e nobilissimo. Poche volte soltanto egli ha reagito, quando con qualche malignazione si cercava colpirlo alle spalle ed il suo santo risentimento trovava eco in tutte le anime oneste che assistevano al dibattito.
  Il Ciccarese aveva indicato per deporre contro di lui come testimone, tutti coloro che dal Marvasi erano stati colpiti in modo sanguinoso per avere sempre egli - come depose l'avv. Salvi - accettato generosamente la responsabilità non soltanto degli atti suoi, ma di quelli del partito e del nostro giornale, cui egli consacra tanta parte della sua attività e del suo ingegno.
  Enrico Leone, con una forma semplice e commovente, disse di lui cose lusinghiere assai, mettendo in evidenza la trasformazione subita dal Marvasi dal giorno in cui l'animo suo si è aperto alle ideali visioni del nostro partito. Perfino i testimoni avversari, coloro cioè che insistentemente, in tempi remoti o recenti, improvvisamente aggredirono il Marvasi, non potettero fare a meno di ammirare il coraggio del Marvasi che, aggredito energicamente, si difese. Né meno luminosa risultò la prova dei sacrifici fatti da lui nell'interesse del partito e durante la pubblicazione del suo giornale La Pecora.

Il filosofo, Norberto Bobbio - Gianluca Salvati 1999

sabato 25 maggio 2013

L'elezione di Enrico De Nicola a Presidente della Repubblica | La baronessa Ottavia Penna

[...] Nel mondo dietro la porta chiusa - quello dei grandi giochi cifrati e coperti - siamo fermi al '46, quasi a settant'anni fa. Non è un'esagerazione, state a sentire.
Nel mese di giugno del '46 Guglielmo Giannini propose per il Quirinale una donna come "condanna di un mondo politico incancrenito". La cancrena, oggi si usa dire il cancro. Lei era Ottavia Penna da Caltagirone, nata baronessina Buscemi. Antifascista, eletta alla Costituente nella città culla della Dc: Mario Scelba se ne lamentò per lettera con Luigi Sturzo.

don Luigi Sturzo
C'erano 21 donne, 556 uomini in quell'assemblea. La baronessa da ragazza si aggirava con un coltello, di notte, a tagliare i sacchi di grano che i baroni della sua terra destinavano illegalmente al mercato nero anziché all'ammasso. Altre notti prendeva le carni macellate dalle sue fattorie e le portava agli indigenti. Aveva studiato al Poggio Imperiale, poi a Trinità dei Monti.

Ottavia Penna

Anticomunista, monarchica. Giannini la candidò contro De Nicola, che ebbe l'80 per cento dei voti: gli mancarono quelli del partito repubblicano e i 32 andati ad Ottavia Penna.
Dal Giornale di Sicilia del 29 giugno 1946: "Molto commentati i voti che escono dall'urna in favore della deputata qualunquista siciliana. Guglielmo Giannini, con la sigaretta spenta tra le labbra, rientra nell'aula e salito al banco dove siede la candidata del gruppo s'inchina a baciare la mano della signora, per una singolare affermazione di qualunquismo designata alla presidenza". Una 'singolare affermazione' che il leader dell'Uomo qualunque spiegava così: "Una donna colta, intelligente, una sposa, una madre. L'abbiamo scelta per opporla alla tirannia dei tre arbitri della cosiddetta democrazia: costituisce per noi la condanna di un mondo politico incancrenito".
Dalla baronessa alla Iotti quel Colle del potere sempre proibito alle donne, Concita De Gregorio, la Repubblica  6/4/2013

giovedì 23 maggio 2013

Politica e mafia | Luigi Sturzo, fondatore del partito popolare, e il veto all' on. Gennaro Aliberti | Storia dell'intreccio politico mafioso

Nel 1921 don Luigi Sturzo, fondatore del partito popolare, oppone il suo veto all’inclusione dell’on. Gennaro Aliberti nella lista dei candidati alle elezioni politiche. L’Aliberti, dopo il rifiuto, passa a sostenere la lista fascista che in quelle elezioni fa la sua prima apparizione a Napoli, e a spingere le squadre del Padovani in particolare contro l’on. Degni e i popolari, il 12 maggio, durante un comizio al Politeama.

don Luigi Sturzo, fondatore del Partito Popolare

Il comizio

"Terminato il discorso: S.E. Degni con tutti i suoi, si è allontanato dal palcoscenico ed il teatro si andava svuotando quando i fascisti sono insorti per il mancato contraddittorio promesso e S.E. Degni, impavido, è ritornato al suo posto. Si sono, però, incrociati vivaci battibecchi fra fascisti e popolari. A questo punto S.E. Degni, rispondendo al capitano Padovani, che chiedeva insistentemente il contraddittorio, ha detto di volerlo concedere ai fascisti, ma mai a persona pagata da Aliberti, ciò che ha eccitato viepiù l’ambiente, accrescendo il tumulto. Allora S.E. Degni ha creduto opportuno allontanarsi ed ha potuto raggiungere la sua automobile ed andar via. I fascisti sono usciti dal teatro col preordinato intendimento di dare molestia e dileggiare i popolari al loro passaggio per piazza S. Maria degli Angeli. Infatti i fascisti, riunitisi in meno di un centinaio nei pressi della sede della loro associazione, non appena hanno visto i popolari che s’incamminavano in corteo, hanno fatto per slanciarsi loro addosso e strappare la bandiera bianca dalla quale erano preceduti, ma sono stati affrontati dalla forza pubblica che è riuscita a trattenerli, per modo che i popolari hanno potuto proseguire per la loro via". (Rapporto del questore al prefetto 21/05/1921 - A.S.N., Gab. Questura, fasc. 5494)

giovedì 2 maggio 2013

Politica e mafia | La causa Aliberti - 1799. Gennaro Aliberti - Eduardo Giacchetti - Pietro Pansini | Storia dell'intreccio politico mafioso

La causa Aliberti/1799


  ||  Aspettando l’udienza
Nonostante il caldo enorme, molto pubblico si addensa nel vasto salone di Castelcapuano aspettando che giunga l’ora del secondo spettacolo offerto dall’on. Giuoco Piccolo ai cittadini napoletani: uno spettacolo che dopo un anno si rinnova oggi per colpa di quei magistrati dell8 sezione del nostro tribunale che l’anno scorso non seppero seguire il nobile esempio di Raffaele de Notaristefani e con un’ambigua sentenza si astennero dall’imprimere sulla fronte del pallido criminale di Massalubrense il marchio della condanna reclamata con voce concorde dalla pubblica opinione e dalle risultanze di quel processo. Per colpa di quei magistrati Gennaro Aliberti, recentemente investito un’altra volta della carica di consigliere provinciale, può aggirarsi spavaldamente per i locali di Castelcapuano, sicuro che i magistrati della corte di appello non smentiranno le tradizioni della giustizia italiana, sanzionando la condanna inflitta all’onesto Giacchetti. Infatti egli va coi suoi fidi Rota e Gattola Mondella, ostentando la certezza del secondo trionfo. Ed anche oggi si fa seguire dai migliori campioni della malavita della sezione Mercato, la quale ha voluto novellamente testimoniare della solidarietà che la lega a don Gennarino e muovere al suo soccorso. A completare il corteo manca per ora soltanto Simeoni, trattenuto altrove forse per celebrare i consueti riti di Sodoma. Quando questi arriva, don Gennarino gli va incontro tendendogli affettuosamente le mani come per abbracciarlo, mentre lo stato maggiore camorristico, chiamato a raccolta per l’occasione solenne, fa ala al loro passaggio, rendendo gli onori (diciamo cos tanto per intenderci) ai due non troppo onorevoli personaggi. 

  ||  Nell’aula
Alle due e un quarto, ciò dopo una lunga attesa, l’usciere pronuncia con le sacramentali parole l’ingresso della Corte. E subito dopo il presidente d la parola all’on. Pietro Pansini, il quale, rifacendo brevemente la storia del processo, chiede all’accusa se intende insistere sui motivi presentati all’ultim’ora, che escludono la facoltà della prova. Dichiara al rappresentante il P.M. che, se la discussione della prova fosse negata, i difensori saprebbero compiere il proprio dovere. Prosegue dimostrando la necessità che in questo processo d’interesse pubblico sia fatta ampia luce. Invita la Corte a decidere sulla limitazione della prova dicendo che, nella coscienza popolare radicato il convincimento della disonestà dell’Aliberti, per quanto riguarda l’esercizio del lotto clandestino. Questo processo - egli dice - un capitolo della nuova storia di Napoli, la quale ha bene il diritto di sincerarsi dell’onestà dei suoi rappresentanti politici. La casa dell’uomo politico deve essere come di vetro, in modo che tutti possano vedervi dentro liberamente. Questo impellente dovere non stato compreso dall’Aliberti e dai suoi difensori. Entra, quindi, nell’esame dei vari motivi di nullità del precedente giudizio e accenna con frase felicissima ai volgari espedienti della parte civile per impedire la prova. Passando all’esame dei testimoni ricorda che nella lista di essi figurano nomi di uomini superiori ad ogni sospetto come quelli di Domenico Miraglia, di Giusso, di Saredo, di De Martino, ecc., i quali non esitarono a dire il loro pensiero sfavorevole alla figura morale di Aliberti. Accenna ad un ultimo motivo di nullità: quello della malattia del giudice Puca, per cui il processo doveva rinviarsi. Cita in proposito parecchi esempi e, dopo aver discusso l’ illegalità della querela presentata ad un giudice incompetente, conclude augurandosi che la Corte di Appello accolga l’istanza della difesa. La fine dell’arringa di Pansini calorosamente applaudita dal pubblico.

  ||  L’intermezzo Rota
Un intermezzo che comincia con la lirica intonazione infiorata di motti latini che fanno rimanere attonito l’entourage piuttosto analfabeta dell’on. Giuoco Piccolo. Babbuino Rota si asciuga il sudore, beve il primo bicchiere d’acqua e poi comincia promettendo di essere breve. Il pubblico si mostra lieto di questa buona novella, la quale allontana il pericolo di una lunga parentesi di noia in quest’ora cos asfissiante. Anche dal banco della stampa partono amorose occhiate di ringraziamento a Babbuino, il quale oggi appare pi babbuino del solito, specialmente quando con invidiabile faccia fresca asserisce che non vi fu alcuna limitazione di prova per parte di don Gennarino Aliberti. A questa allegra trovata il pubblico prorompe prima in una sonora risata e poi in proteste, che sarebbero anche pi sonore se non l’impedisse la presenza nell’aula di un considerevole numero di poliziotti. Il presidente chiama in soccorso il campanello, ammonisce il pubblico di non turbare la serenità della giustizia, ecc, ecc, e poi prega Babbuino Rota di essere pi calmo e di non provocare il pubblico. Babbuino resta interdetto e continua a sballare castronerie d’ogni colore, fino al punto da assicurare , come la cosa pi naturale di questo mondo, che a don Gennarino non pareva vero di rendere possibile una severa indagine su tutta la sua vita pubblica. Nuove risate dal pubblico e nuovi richiami del presidente. Dimenticando la promessa di essere breve, fatta in principio, parla lungamente senza concludere nulla e annoiando tutti coloro che hanno la sventura di ascoltarlo. L’eloquenza di Babbuino con questo caldo addirittura insopportabile. Essa fa sbadigliare perfino l’usciere, il giudice Oberty e Gattola Mondella, i quali, a quanto ci si assicura, sono i soli ammiratori dell’illustre avvocato. Finalmente, come il Signore Iddio vuole, Babbuino Rota finisce ed il pubblico caccia un grande respiro di soddisfazione. Durante la sua arringa il chiaro uomo non ha fatto altro che leggere la memoria stampata di Simeoni. Quest’ultimo aggiunge poche parole a quelle del suo collega della P.C., e poi finisce anche lui chiedendo che la Corte non accolga la richiesta della difesa. A questo punto l’udienza viene sospesa per cinque minuti. 

  ||  Il seguito dell’ udienza
 Riapertasi l’udienza il P.M. comincia la sua arringa con la quale respinge tutti i motivi di nullità presentati dalla difesa. Da questo magistrato che ha voluto cos palesemente rendersi solidale coi nominati Rota e Simeoni noi non ci aspettavamo una serena parola di giustizia. Ed i fatti ci hanno dato ragione. Aspettiamo ora la decisione che venerdì prossimo dovranno pronunziare i consiglieri di appello, augurandoci che essa non violi gl’interessi supremi della giustizia e della moralità.


Uomo, olio su tela 2007 - Gianluca Salvati

lunedì 29 aprile 2013

Una lettera dell'avv. Enrico De Nicola - Primo Presidente della Repubblica



L’egregio avvocato De Nicola, ribadisce, colla lettera che pubblichiamo, una notizia data due numeri fa, riguardante un noto galeotto assoldato dalle gentildonne e dai gentiluomini colpiti dall’inchiesta e da d. Tommasò dell’Immobiliare.
Napoli, 29 gennaio del 1902
Spettabile Redazione della “Propaganda”
Il Vostro giornale ha fedelmente riportato ciò che, per confusione nei ricordi o nella narrazione, gli era stato riferito relativamente ad un invito da me ricevuto per assumere la difesa del direttore di un foglio ebdomadario contro il quale sono state sporte varie querele per diffamazione. 
Ciò nei rapporti della Propaganda.
Per quanto riguarda la mia persona posso affermare con precisione irrecusabile che parecchi giorni or sono un mio carissimo amico mi annunziò di aver ricevuto una visita di quel signore, il quale gli aveva manifestato l’idea di rivolgersi a me o ad un valoroso collega, di cui fece anche il nome, per il patrocinio delle sue ragioni.  All’amico che mi dava simile preavviso con l’aggiunta di aver consigliato il mio fra i due nomi indicati, risposi meravigliandomi altamente che potesse venire a casa mia il direttore di quel foglio per invitarmi ad assumere la sua difesa.
Infatti, egli è stato querelato per una campagna, che io – giudice sereno perché lontano dalle lotte partigiane della mia città – reputo perfino inverosimile nella sua enormità, iniziata o contro amici carissimi come Pietro Pansini, Carlo Altobelli, Roberto Marvasi, Alfredo Sandulli, Arturo Labriola, cui mi avvincono non soltanto sentimenti di stima sincera, ma nodi indissolubili di affetto fraterno – o contro altri come il Lucci, il Leone ecc., che non conosco ma che, giovane anche io, altamente ammiro per lo spirito pugnace e l’ideale che li agita. E tale risposta avrei dato al direttore di quel giornale se fosse venuto a casa mia, come aveva preannunziato.
Esposto così l’incidente nei più esatti particolari, dichiaro chiusa, per conto mio, ogni ulteriore polemica, porgendo a voi, onorevole redazione, i sensi della mia osservanza.
Avv. Enrico De Nicola

avv. Enrico De Nicola - Pirmo Presidente della Repubblica
Abbiamo pubblicato con piacere questa lettera del De Nicola, noi che già fedelmente pubblicammo quanto egli ebbe a dire a un nostro amico.
E ci gode l’animo di aggiungere a titolo di lode del giovane avvocato, che egli, in pubblico tribunale, ha a tal proposito aggiunto: “Un avvocato che si rispetta non accetta certe cause!”. Ma se lo dicevamo noi! Colui sarà difeso da un ruffiano!